Solo dopo aver iniziato a scrivere il testo, ho scoperto che il titolo scelto Foto di famiglia era già stato posto ad un film del 2020 di Ryôta Nakano uscito nell'ottobre 2023. Film che mi ha indotto a interrogarmi sull'archivio fotografico a me affidato.
Le foto di famiglia sono essenziali per un recupero della memoria, testimoniano il passato recente senza deformazioni, si ritengono oggettive. "Io ricordo bene che cosa è accaduto" è la frase che si oppone a chi evidenzia particolari che non appartengono a tutti i testimoni nel pronunciare la propria memoria orale.
La questione diventa filosofica e di incerta o meglio difficlle soluzione se non vogliamo addentrarci alle molteplici risposte che affrontano la domanda "dove sta la verità?" E in questi casi è necessaria? O si ricorda quello che siamo certi di aver vissuto e che di fatto non sempre corrispondono all'esperienza degli altri...
Ecco pertanto le mie confessioni.
Mi piace talvolta navigare nei ricordi che credo siano sempre veritieri finché qualche familiare che ha partecipato agli stessi avvenimenti non mi smentisce e rettifica la mia versione di quanto affiora dal passato.
L'impatto è duro, mi mette alla prova e mi pone inquietanti interrogativi sulla distorsione delle verità che opero inconsciamente. Che cosa voglio veramente ricordare o meglio che versione custodisco gelosamente dei fatti a cui ho partecipato?
Inizio con una distinzione.
Esistono due tipologie di foto: quelle scattatate in uno studio opera di un fotografo professionista e le altre libere, spontanee, occasionali eseguite da un familiare dilettante o da un conoscente possessore di una macchina fotografica appassionato sperimentatore o talvolta da un fotografo di strada.
Al mio tesoretto fotografico mancano per la maggior parte i dati cronologici manoscritti da una mano consapevole fondamentali per inquadrare quanto sto narrando, ma l'inquadratura generale è evidente: siamo nella seconda metà degli anni Cinquanta e sicuramente dopo la mia nascita.
Le tradizioni della famiglia materna includevano tra le varie opzioni i ritratti fotografici eseguiti in occasione di avvenimenti importanti: cerimonie religiose, partenze, richiesta di documenti di riconoscimento, ma anche momenti casuali per il puro piacere di possedere finalmente un ritratto di quel determinato attimo fuggente. Mia madre ultima figlia dopo sei fratelli maschi ha avuto il ruolo di attenta conservatrice del patrimonio fotografico, anche perchè cronologicamente è stata l'ultima a lasciare il nido familiare.
La famiglia paterna non presentava un così ricco archivio, almeno non ne ho conoscenza. Forse l'ha ereditato la sorella di mio padre. Forse per la mancanza di un attento conservatore o per gli avvenimenti esterni, i vari spostamenti dai luoghi natii, - il nonno era un casellante delle ferrovie dello stato sia sotto l'Austria Ungheria sia sotto l'Italia - avevano reso difficoltosa la produzione di ritratti e la conseguente consegna di quanto posseduto "a futura memoria dei familiari" agli eredi.
Devo tributare a mia madre la passione per l'archiviazione e la conservazione delle fotografie che gelosamente custodite in una "vissuta" - ma per me splendida - valigetta in pelle, l'hanno seguita nei suoi vari spostamenti e nelle sue vicissitudini. Senza tante solenni parole da parte sua, la valigetta è rimasta a me, quando ancora non capivo quale responsabilità mi assumevo con tranquilla negligenza.
La storica valigetta
Il primo ricordo che ho della fotografia eseguita con una procedura solenne, cioè entrare in uno studio fotografico, affrontare un uomo che dava delle disposizioni a chi doveva essere ritratto è legato a mia sorella.
Ho deciso di presentare questo episodio perchè mette in scena due protagonisti, entrambi agiti nel proprio ruolo e non disposti a compromessi. Soltanto a questa mia tarda età, affrontando la storia della fotografia a Trieste, mi sono resa conto d'essere stata presente come testimone involontaria nello studio del grande fotografo, conosciuto e nominato solo come Ceretti che vantava una fama notevole almeno tra i miei parenti e conoscenti. Nelle rituali familiari passeggiate al Corso per poi raggiungere la Grande Piazza Unità era d'obbligo soffermarsi ad osservare i ritratti fotografici che venivano esposti nella sua vetrina al n. 9 dove al 2. o 3. piano dell'edificio si trovava il suo studio, ritratti che venivano continuamente aggiornati e quindi di grande richiamo, una volta compresa l'operazione pubblicitaria. Il divertimento familiare era poi commentare la riuscita del ritratti, specialmente se si riconosceva qualche amico vicino o lontano e, assunto il ruolo di stilisti improvvisati, osservare le pettinature, i vestiti, le pose.
Andare da Ceretti significava prepararsi ad un momento importante, scegliere con cura gli abiti da indossare "quelli della festa", acconciare i capelli rinnovando il taglio o la pettinatura. Almeno ciò si pensava in alcune famiglie che avevano fatto tesoro dello strumento fotografia, ormai alla portata di tutti grazie ad una spesa economicamente non troppo elevata: immortalare il volto del familiare nelle varie fasi della vita.
Ed ecco l'evento che mi ha visto almeno questa volta non protagonista nel famoso studio.
Mio padre era lontano da casa, molto lontano, per ragioni di lavoro, imbarcato su una petroliera filandese dal nome incredibile Jaranda e la sua assenza sarebbe durata a lungo, mesi durante i quali non avrebbe potuto vedere la sua figlia minore, nata da poco. Mia madre che aveva un istintivo rispetto per la fotografia e per il suo ruolo di ricordo vivo e palpabile del soggetto, decise di affrontare la spesa di un ritratto nel grande studio Ceretti.
Ma non sapeva ancora quale carattere avrebbe dimostrato la piccola bambina di appena due anni, costretta in posa su una sorta di baldacchino elevato con una bambola in mano, che non era la sua in quanto non amava le bambole e tanto meno le portava con sé.
Nonostante le sollecitazioni del fotografo artista che coinvolgeva anche me, non riuscimmo a far sorridere mia sorella che non desideva altro se non scendere dal trono illuminato sul quale era costretta a sedere con il seminudo bambolotto tenuto a mala pena senza alcuna attenzione, desiderosa solo di far finire quella inutile commedia che vedeva il basso uomo, come un folletto, correre di qua e di là nello studio implorando un sorriso. Siamo nel 1959.
Anch'io fui costretta alla medesima tortura in un'altra occasione molto più ufficiale: la foto ricordo della prima comunione con l'abito bianco, fiocchi adeguati, coroncina sulla testa, guanti bianchi e mazzetto di fiori. Stesso scranno su cui sedere e... stesso sguardo assente, privo di qualsiasi espressione. Siamo nell'anno 1960.
Devo dire che sorridere al nulla non mi riusciva, nè la situazione mi divertiva, anche se l'abitudine ad essere ritratta come protagonista nelle fotografie era dovuta ad uno zio veramente appassionato a immortalare le varie situazioni in cui coinvolgeva i presenti.
Un esempio di come le pose si perpetuavano con successo. In questo caso la mia cuginetta, interpreta se stessa con più convinzione, esibisce anche l'orologio ricevuto in regalo. Nella realtà era molto più disinvolta di me in ogni occasione e, oso dire, lo si vede già anche da questi ritratti, 24 maggio 1959.
La variante proposta da Ceretti era la bimba comunicanda con accanto la madrina, in quegli anni.
Nel 1975 ben 16 anni più tardi. Un'altra possibile variante era la foto con accanto la sorella minore, pur essendo i tempi cambiati e l'abitudine ad essere fotografati era consolidata, il disagio e la mancanza del sorriso permane.
Ceretti si dimostra nella ritrattistica fotografica un maestro in quanto molto attento alle esigenze della sua clientela, uomini donne bambini. I protagonisti approvano la sua richiesta di posa perchè garantisce un buon risultato... e talvolta riesce a cogliere l'attimo di spontaneità, come nel caso di questa bimba, mia cugina, nel 1948.
Mia madre nel 1948 firmata Ceretti.
Il cugino coetaneo considerato il bello della famiglia, la dedica riporta la data 20 febbario 1947.
Altra foto firmata Ceretti priva di data forse 1946.