NASCITA DELL'ARCHEOLOGIA

Nell’Impero asburgico dal 1846 ogni ritrovamento archeologico veniva diviso tra lo scopritore e il proprietario del fondo, decadendo di fatto la forza legale degli enti museali sulla tutela e da allora essi dovettero muoversi sul mercato antiquario in concorrenza con i collezionisti privati.

Nel 1850, istituita la K.k. central-commission, a Trieste le ricerche archeologiche passarono sotto il pieno controllo del Comune, rappresentato dai direttori dei Musei Civici, Carlo Marchesetti per quello di Storia naturale e Alberto Puschi con Piero Sticotti per quello d’Antichità.

Carlo Marchesetti fu impegnato nelle ricerche sul Carso triestino e in Istria, facendo luce per primo sugli abitanti delle grotte nell’età della pietra e dei castellieri nel periodo del bronzo e del ferro.

Il Museo d’Antichità oltre a prestare l’opera sua nell’esplorazione di Nesazio ed in altre scoperte avvenute nell’Istria, assicurò alla città tutto ciò che veniva ritrovato.

Gli scavi urbani erano dovuti quasi per intero allo sviluppo della città e la direzione del Museo si impegnò al controllo dei cantieri e qualora affioravano resti antichi veniva proseguiti sotto la direzione di Puschi e Sticotti. 

A Trieste nasce l'archeologia e la fotografia ne documenta i successi

Marzia Vidulli Torlo


La Cancelleria Aulica di Vienna nel 1846, al fine di diffondere la conoscenza delle opere antiche, dispose la rinuncia dello Stato al diritto del terzo del valore sui beni archeologici ritrovati così che ogni tesoro riportato alla luce venne diviso tra lo scopritore e il proprietario del fondo; pertanto decadeva la forza legale degli enti museali sulla tutela delle ricerche e sui reperti e da allora essi dovettero muoversi sul mercato antiquario in concorrenza con i collezionisti privati, senza alcun diritto di precedenza.

 Alle autorità politiche era demandato un compito di mera vigilanza sui ritrovamenti con dovere di stilare rapporti sulle loro entità, senza però alcuna possibilità di intervenire per impedirne o limitarne la dispersione; esistevano comunque dal 1819 rigide prescrizioni di divieto d’esportazione all’estero, senza autorizzazione del Governo.

 

Nel 1850 venne istituita la K.k. central-commission zur Erfoschung und Erhaltung der Baudenkmale (I.r. commissione centrale per lo studio ed il mantenimento degli edifici storici) che se ad Aquileia e nell’Isontino svolse un’attività di grande rilevanza, per Trieste fu meno significativa: in particolare le ricerche preistoriche e sui monumenti romani e medioevali passarono sotto il pieno controllo del Comune, rappresentato dai direttori dei Musei Civici, Carlo Marchesetti per quello di Storia Naturale e Alberto Puschi con Piero Sticotti per quello d’Antichità.

 

Carlo Marchesetti, direttore del Museo di Storia Naturale, fu impegnato nelle ricerche sul Carso triestino e in Istria, facendo luce per primo sugli abitanti delle grotte nell’età della pietra e dei castellieri nel periodo dei metalli, fino all’arrivo dei romani.

 

Il Museo d’Antichità (dal 1909 Museo di Storia ed Arte) “oltre a prestare l’opera sua nell’esplorazione di Nesazio ed in altre scoperte avvenute nell’Istria, assicurò alla città quanto di buono e meritevole di essere conservato veniva in essa trovato, e del pari non si lasciò di prendere esatta notizia di tutte le eventuali scoperte, ma a seconda dei casi si cercò pure di completarle colle proprie investigazioni” Puschi 1911, p. 143.

 

In Trieste gli scavi archeologici tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento furono dovuti quasi per intero allo sviluppo della città e la direzione del Museo si impegnò al controllo dei cantieri mandando sul posto il suo fotografo Pietro Opiglia che documentava i primi ritrovamenti per stendere poi lo schizzo di un embrionale rilievo dello scavo che, se ritenuto di notevole importanza, proseguiva sotto la direzione di Puschi e Sticotti e veniva immortalato dall’obiettivo della macchina fotografica del museo stesso.

 

I musei divennero il centro degli studi e delle ricerche “dirette a svelare la natura, la vita ed i costumi dei popoli primitivi, ad illustrare la storia dei tempi romani rilevata da quanto ancora rimane e dalle cose che quasi giornalmente tornano alla luce, a classificare ed apprezzare i molteplici ricordi tramandatici dai secoli di mezzo ed infine a riunire i molti oggetti che dovranno un giorno condurre alla conoscenza del presente” Puschi 1911, p. 149.

 

Nello svolgere questo impegnativo quanto ingente incarico, accanto alla profonda preparazione scientifica del direttore Alberto Puschi e del conservatore - e poi direttore - Piero Sticotti, era soprattutto la fotografia il mezzo per la documentazione dei materiali conservati e acquisiti dal Museo. Immagini in banco e nero di una eccellente qualità erano poi indispensabili nell’ambiente scientifico per lo scambio di informazioni, per confronti e inquadramenti, che hanno permesso ai reperti delle collezioni archeologiche triestine di essere ampiamente conosciuti e non solo in Europa, di venir inseriti nei grandi cataloghi, negli atti dei congressi mondiali e nelle enciclopedie come la Treccani.

 

Carlo Marchesetti e gli scavi di Santa Lucia di Tolmino

Marzia Vidulli Torlo

 

Carlo Marchesetti (Trieste 1850-1926) laureatosi a Vienna in medicina, nel 1874 accompagnò l’esploratore inglese Richard Burton, allora console a Trieste, in una gita in Istria, scoprendo così il mondo dell’archeologia. Vinto il concorso per direttore del Museo di Storia Naturale di Trieste ne resse le sorti per ben 45 anni (dal 1876 fino al 1921).

 

Grazie alle sue indagini e agli scavi sul Carso divenne uno dei più rinomati paletnologi italiani: con determinazione e tenacia fece luce sulla storia della regione in epoca preromana, storia che fino ad allora era del tutto sconosciuta e ignorata.

 

Il sito che gli diede le maggiori soddisfazioni, appagando le fatiche di tredici campagne di scavo, fu quello di Santa Lucia di Tolmino (Most na soči, in Slovenia) indagato tra 1884 e 1902. Nei suoi inesauribili campi funebri ebbe occasione di riportare alla luce un numero eccezionale di tombe: quasi 4.000. Alcune sepolture si distinguono per la presenza di oggetti straordinari, quali situle di dimensioni grandissime, eleganti vasetti in vetro fenicio, un fantastico coperchio in bronzo figurato a sbalzo, e molto altro d’una conservazione, che non si potrebbe desiderare migliore.

 

1. Pietro Opiglia (1877-1948)

Carlo Marchesetti, [ante 1926]

Inv. CMSA F10654

 2. Pietro Opiglia (1877-1948)

Scavo della trincea nella necropoli dell’età del ferro, Santa Lucia di Tolmino 1902

Inv. CMSA F69459

 

 3. Pietro Opiglia (1877-1948)

Carlo Marchesetti e gli scavatori posano in un momento di pausa presso le trincee di scavo delle sepolture dell’età del ferro, Santa Lucia di Tolmino 1902

Inv. CMSA F69460

 

Gli scavi in Istria:  Nesazio

Marzia Vidulli Torlo

 

Nel 1900 la Giunta provinciale dell’Istria finanziò gli scavi della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria, al fine di dare risposta a un interrogativo che era vivo da molti anni e concerneva il sito delOppidum Nesactium, che gli storici latini, Tito Livio e Plinio, avevano ricordato come ultima roccaforte degli Istri, strenui difensori della propria terra all’arrivo dell’esercito romano conquistatore nel 177 a.C.

 

Individuata la collinetta di Visaze, sita presso Altura, a nord-est di Pola, gli scavi diretti da Alberto Puschi e Piero Sticotti (rispettivamente direttore e conservatore del Museo Civico d’Antichità di Trieste) diedero subito soddisfacenti risultati, e si ebbe così la conferma che si trattava proprio di Nesazio; città che “rivelò le sue vicende, aggiungendo una nuova pagina alla storia istriana dalla quale si deduce la sua importanza nelle epoche più remote …” (Puschi).

 

 1. Francesco Benque (1841-1921)

 Alberto Puschi, [ante 1904]

 

Nato a Trieste il 13 febbraio 1853 morto il 9 novembre 1922. Numismatico e archeologo compì i suoi studi presso l’Università di Graz e fu direttore del Museo Civico d’Antichità dal 1884 al 1919. Curò il secondo riordino dell’Orto Lapidario e diresse campagne di scavi a Trieste e in Istria, nel sito dell’antica Nesazio.

Inv. CMSA F17791

2.Fotografo non identificato

Piero Sticotti, [ante 1953]

 

Nato a Dignano d’Istria il 4 aprile 1870 morto a Trieste 30 luglio 1953. Studiò a Vienna filologia classica e archeologia. Fu assunto nel 1905 presso il Museo Civico d’Antichità di Trieste del quale fu direttore dal 1920 al 1940. Promosse e diresse molte campagne di scavo in Istria e a Trieste dove seguì in particolare la riscoperta della basilica civile a San Giusto. 

Pubblicò moltissimi articoli scientifici e divulgativi e nel 1951 il volume dedicato alle iscrizioni tergestine.

Inv. CMSA F37699

 

3. Fotografo non identificato

Ritrovamenti monumentali del frontone del tempio di Eia a Nesazio : gruppo con Bernardo Schiavuzzi, Alberto Puschi e Piero Sticotti, settembre 1902

Inv. CMSA F3166

 4. Atelier Flora

Frontone del cosiddetto tempio di Eia trovato a Nesazio: Pietro Opiglia [a destra] con Bernardo Schiavuzzi, direttore del museo di Pola, Pola 1903

Inv. CMSA F3229

5. Fotografo non identificato

Timpano del tempietto, Pola 1903

Inv. CMSA F15847

La villa romana di Barcola

Marzia Vidulli Torlo 

  

I mosaici romani della villa di Barcola furono trovati tra il 1887 e 1891 negli scavi di una lussuosa villa marittima che si snodava lungo la riva del mare per una lunghezza riconosciuta di circa 300 metri e si articolava in una zona di rappresentanza, una residenziale appartata, un giardino, e alcune strutture aperte sul mare, collegate a ambienti termali e di servizio.

 

 La villa databile, nella sua prima fase edilizia, alla tarda età repubblicana (seconda metà del I secolo a.C.), ampliata in tardo periodo augusteo (inizio I sec. d.C.) fu in seguito ristrutturata e monumentalizzata nei successivi cinquant’anni. Nei mosaici, che pavimentavano 22 ambienti della villa, predominano i motivi geometrici in bianco e nero, ma in combinazioni sempre diverse, e non mancano raffinati tessellati neri, più raramente bianchi, in cui sono inseriti frammenti di marmi e ciottoli dai colori e venature policrome.

 

Negli scavi, oltre ai mosaici è stata rinvenuta anche una statua in marmo rappresentante un Atleta, o cosiddetto Palestrita, copia di età neroniana (metà I sec. d.C.) del famosissimo Diadumeno, statua in bronzo opera dello scultore greco Policleto della metà del V secolo a.C. Gli scavi, iniziati già nel 1887, hanno portato alla luce due nuclei di ambienti residenziali di cui uno indicato come Villa della Statua (scavi 1888-1889) e l’altro come Palestra e Ninfeo (scavi 1890-1891). Oggi, data la vicinanza delle due zone e l’omogeneità dei mosaici e dei materiali rinvenuti, vengono connessi e considerati come parti di un’unica villa marittima.

 

I pavimenti a mosaico furono ritrovati in cattivo stato di conservazione e per la maggior parte fu possibile recuperarne unicamente i tratti meno deteriorati. Solo quelli di tre stanze vennero restaurati sul posto e integralmente rimossi.

 

Il sistema usato, allora il più consueto, comportò lo “strappo” di singoli pezzi di forma rettangolare regolarmente tagliati: per mezzo di tele incollate sul mosaico le tessere vennero staccate dall’originale letto di malta e quindi riadagiate su una nuova base di cemento; in seguito vennero reintegrati i molti guasti, pulite e lucidate le superfici. Il risultato furono più di 100 pannelli che nel 1891 vennero allestiti in una sala del civico Museo d’Antichità in Palazzo Biserini di piazza Hortis. Fu creata un’esposizione in cui i mosaici ricoprirono interamente due pareti, in una curiosa composizione nella quale i mosaici uguali, provenienti dallo stesso pavimento, non erano mai vicini, mentre a terra furono posti i tre “tappeti” meglio conservati.

 

1. Società Alpina delle Giulie

Veduta dell’area degli scavi dove fu rinvenuta la villa romana, 1891

Inv. CMSA F1158

2. Pietro Opiglia (1877-1948)

Esposizione dei mosaici di Barcola, [1924]

L’allestimento in Palazzo Biserini di piazza Hortis, inaugurato nel febbraio 1891 fu smontato nel 1925 quando il museo si spostò a San Giusto; i mosaici si estendevano per 60 metri quadrati.

Inv. CMSA F10384

 

 3. Pietro Opiglia (1877-1948)

Statua in marmo del cosiddetto Palestrita, [post 1904]

Copia di età neroniana (metà I sec. d.C.) del famosissimo Diadumeno, statua in bronzo opera dello scultore greco Policleto della metà del V secolo a.C. (inv. 2238 e 2264).

La statua fu trovata infranta e i pezzi, per quanto possibile, vennero allora riuniti dallo scultore triestino Luigi Conti.

Inv. CMSA F14121

 

4. Francesco Benque (1841-1921)

Piede e braccio del Palestrita di Barcola, [ante 1904]

Frammento piede inv. 2264, frammento braccio inv. 2265

Inv. CMSA F866

Scavi di Bosco Pontini

Marzia Vidulli Torlo

 

A iniziare dal 1907 il pendio settentrionale di via Bramante, detto Bosco Pontini poi Basevi, venne progressivamente edificato e dagli scavi delle fondamenta dei palazzi emersero molte testimonianze archeologiche di periodo romano: un complesso costituito da un insieme di stabili adibiti ad usi artigianali, insediati lungo l’antica via per l’Istria, là dove il passaggio del traffico avrà visto molti viandanti servirsi di queste botteghe. Tra queste è stata ipotizzata l’esistenza di un fabbro, con ambienti di fucina; una panetteria dotata di un piccolo forno, un pozzo e forse una latrina con canale di scarico; e ad Ovest probabilmente una taberna, con servizio di cibi caldi, allestita lungo la via.

 

L’insieme di tutti questi locali era addossato alla collina (lungo complessivamente m 30 e largo 18), con una pianta poco regolare e pavimenti a diverse altezze, percorso da parecchi canali sotterranei. Gli ambienti erano ornati con raffinatezza da intonaci fini e incorniciature in stucco; in un secondo tempo venne stesa su questi affreschi una seconda mano di intonaco che, pur se mantenne varietà di colore, mostra solo motivi a semplici fasce. Il secondo periodo appare caratterizzato da un aspetto più rustico.

 

Il ritrovamento di una serie di monete permette di datare il complesso all’inizio del I secolo d.C.: era sorto nel periodo di espansione della città ed ebbe vita fino al tramonto dell’età imperiale, cadendo quindi in disuso verso il IV secolo d.C., come attestano le tombe a inumazione di epoca tarda rinvenute sovrapposte ai resti degli edifici, allora evidentemente già abbandonati e ridotti a ruderi.

 

Nella zona più a est furono individuate strutture di sostegno a terrazzamenti per le quali forse si può ipotizzare un uso funerario o sacro: il ritrovamento nella località di due basi in calcare dedicate a Giove Dolicheno ha fatto ipotizzare la presenza di un santuario dedicato a questo dio (o a qualche divinità consociata), il cui culto importato dall’Oriente da mercanti e soldati ebbe vita tra II e IV secolo d.C.

 

1. Nicolò Vidacovich (1875-1934)

Scavi nel Bosco Pontini, 1906

Messa in luce degli edifici romani in via Donato Bramante, in primo piano Piero Sticotti

Inv. CMSA F1217

2. Pietro Opiglia (1877-1948)

Statuetta di Iside Fortuna, [post 1906]

Bronzetto raffigurante la dea egizia Iside-Fortuna nella versione romanizzata con cornucopia e timone, rinvenuto negli scavi al Bosco Pontini; prima metà I secolo d.C. (inv. 2457).

Inv. CMSA F46318

 

 

Lo scavo del tempio della Bona Dea

Marzia Vidulli Torlo

 

Nel 1910 scavando le fondazioni della nuova sede della società Greinitz, all’angolo tra via Santa Caterina e corso Italia (ove oggi è l’ingresso dei magazzini Upim), furono portati alla luce due strati di frequentazione romana: uno più recente a -1,50 / 1,80 metri dal livello stradale, l’altro alla profondità di -3,50.

 

Nel livello più alto fu individuato il selciato di una strada dotata di canale e affiancata da porticato, mentre al livello inferiore furono portate alla luce le murature di un edificio con indubbia funzione cultuale: un recinto di forma quasi quadrilatera (m 12,13 x 12,04) con un ingresso sul lato orientale. All’interno, in un atrio-cortile a forma di “U” s’impostava, su una gradinata, un pronao a quattro colonne sulla fronte e due in profondità, che chiudeva un ambiente rettangolare, al centro del quale si trovava, isolata, la piccola cella quadrata, dotata di pavimento di lastroni in laterizio. Ai lati dell’ambiente porticato c’erano due piccole stanze, una a settentrione una a meridione, con probabile funzione di deposito degli attrezzi di culto e forse di apoteca (deposito di medicinali) o usate per i riti oracolari connessi al culto della dea. Le colonne erano in mattoni rivestite di intonaco dipinto e, visto il tipo dell’edificio, sia i capitelli che l’architrave dovevano essere in legno.

 

Nello scavo emersero alcuni elementi molto importanti per la datazione e l’attribuzione dell’edificio. Una lastra (che in un secondo tempo venne riutilizzata come capitello da pilastro nel livello superiore della strada romana) con un’iscrizione ricorda l’erezione di un edificio per decreto del consiglio con i denari pubblici da parte dei due sommi magistrati municipali Lucio, figlio di Tito, Apisio e Tito, figlio di Lucio, Arrunzio. Tale iscrizione fa risalire l’edificio ai primi anni dell’Impero. Il ricco ritrovamento di monete (che vanno dai mezzi bronzi augustei a quelli di Tiberio, Druso, Traiano ed oltre fino al IV secolo d.C.) conferma questa datazione e testimonia che l’utilizzo si è protratto fino al IV secolo.

 

I frammenti di tre labella (o bacili con funzione lustrale) e altrettanti frammenti delle colonnine di sostegno in calcare - due dei quali avevano incisa sull’orlo una dedica alla Bona Dea da parte della liberta Barbia Stadium databili al II secolo d.C. - oltre a confermare la sopravvivenza del culto, sono utilissimi per la sicura attribuzione del tempio alla Bona Dea: divinità romana derivazione dalla Divinità Fauna, che ha assunto le caratteristiche di nume salutare e della casta fecondità. La Bona Dea invocata particolarmente dalle donne era accompagnata parallelamente dal dio Silvano, il cui culto era riservato ai soli uomini. Alla dea erano dedicati templi a Roma, in Trastevere e sull’Aventino (quest’ultimo restituito dall’Imperatrice Livia), ed anche ad Aquileia, così pure è ricordato ad Aquileia e a Trieste il culto a Silvanus Castrensis. Nel territorio di Trieste la dedica alla Bona Dea è stata rinvenuta anche su un altro frammento di labellum, venuto alla luce nello scavo di una villa romana ad Aurisina.

 

 

Pietro Opiglia (1877-1948)

Tempio della Bona Dea, 1909

Resti architettonici del tempio della Bona Dea rinvenuti nello scavo delle fondamenta del Palazzo Greintz in via Santa Caterina

Inv. CMSA F1164  

 

Abitazioni romane sotto la sede della RAS

Marzia Vidulli Torlo 

 

 

Nel 1913, in occasione dei lavori di fondazione della nuova sede centrale della Riunione Adriatica di Sicurtà di piazza Repubblica fu messo in luce un complesso di muri, disposti con vario orientamento, appartenenti ad abitazioni private romane collegate ad edifici di diversa destinazione (come magazzini). Lo stato di devastazione in cui furono rinvenuti i muri, demoliti fino al livello del pavimento, ne impedì un’identificazione precisa.

 

Lungo via Santa Caterina, una stanza era pavimentata con mosaico in tessere bianche e nere con un motivo ad esagoni e triangoli con rosette e fiori di elegante fattura (ora al Lapidario Tergestino del Castello di San Giusto); per decisione dell’architetto Arduino Berlam, il suo motivo fu ripreso nel nuovo pavimento dell’atrio del palazzo.

 

Le abitazioni, databili ai primi secoli della nostra era, si trovavano in una zona al di fuori delle mura, in prossimità del mare e della strada che conduceva ad Aquileia, lungo l’attuale via Dante. Rimasero in uso fino alla fine dell’età imperiale quando vennero abbandonate e demolite e vi si sovrapposero povere tombe scavate nella nuda terra o deposizioni in anfora. In periodo medioevale furono asportati i resti dei muri, tanto per recuperare il materiale da costruzione quanto per liberare il terreno da utilizzare ad uso agricolo e di salina.

 

 

Pietro Opiglia (1877-1948)

Mosaico del fondo Riunione Adriatica di Sicurtà, 17 agosto 1911

Piazza della Repubblica: durante lo scavo delle fondamenta del Palazzo della RAS viene alla luce un mosaico romano

Inv. CMSA F1155

 

L'Arco di Riccardo

Marzia Vidulli Torlo

  

Nell’estate del 1913, durante i lavori di liberazione dell’Arco di Riccardo, demolite alcune case nell’adiacente piazzetta, venne condotto un vasto scavo sotto la direzione dell’ing. P. Zampieri e la sorveglianza di P. Sticotti, per i Musei Civici.

 

Emerse un ampio complesso di costruzioni disposte su più livelli, in una situazione stratigrafica piuttosto complessa. Nello strato inferiore vennero messi in luce resti di muri variamente orientati e un canale di scolo a sezione triangolare in mattoni, inquadrabili nell’ultimo quarto del I secolo a.C.

 

Tra il reticolo dei muri superiori, in corsi regolari di pietra squadrata, si delineava chiaramente a ovest un ambiente rettangolare chiuso da un’abside semicircolare inscritta (interna): non ne rimanevano che le fondamenta e poche tracce dell’intonaco dipinto che ricopriva le pareti; mentre il pavimento era scomparso. Questo edificio, certamente dall’aspetto imponente, era preceduto e affiancato da vani quadrilateri, di cui quello nord più grande presentava basamenti di rinforzo agli angoli (che fanno pensare a una copertura a volta o comunque ad archi a ridosso delle pareti).

 

L’edificio absidato dovette avere una probabile funzione pubblica e Sticotti lo interpretò come un tempio dedicato alla dea Cibele o Mater Magna, in base a un più antico ritrovamento in una casa vicina di un’ara esagona (dispersa dal mercato antiquario, ma della quale rimane un disegno) con iscrizione relativa a ministri addetti al culto della dea: due liberti (servi pubblici affrancati) e una schiava suonatrice di cembali. Nella zona sono stati poi rinvenuti cinque frammenti di un unico architrave con iscrizione alla dea, databile al primo quarto del I secolo d.C. e quindi riferibile a una prima fase del tempio o Metroon. In seguito, in considerazione della diffusione del culto, che altre iscrizioni mostrano ormai gerarchicamente organizzato, l’edificio alla metà del secolo (epoca claudio-neroniana) venne ricostruito determinando la trasformazione della zona in un’area chiusa. Questa fu posta in relazione con l’arco di Riccardo, monumento preesistente (di impianto augusteo) che in questo periodo viene decorato con capitelli e rilievi a rosette e forse utilizzato come ingresso monumentale al tempio (usanza che ebbe una grande diffusione anche nel mondo greco-orientale). L’arco di Riccardo è ora interpretato come un arco di quartiere, elemento separatore tra spazi urbani diversi, affiancato seppur non collegato all’edificio templare (come a Spoleto e Pompei).

 

1. Fotografo non identificato

Arco di Riccardo, 1908

L’Arco di Riccardo prima della demolizione delle case e la sistemazione della piazzetta Riccardo. Riproduzione meccanica dell'editore Giuseppe Maylander (1877-1934)

Inv. CMSA F17626

 

2. Pietro Opiglia (1877-1948)

Scavi presso l'Arco di Riccardo, 4-31 agosto 1913

Trieste, piazzetta Riccardo: gli scavi presso l’Arco di Riccardo mettono in luce strutture romane tra le quali viene individuato un probabile tempio della dea Cibele

Inv. CMSA F1279

 

CITAZIONE LETTERARIA

Nella descrizione che Omero ci ha lasciato della dimora di Eumeo, del fido custode delle mandre d'Ulisse, noi possiamo riconoscere il prototipo dei nostri castellieri. Essa consisteva:

D'un ampio e bello ed alatamente estrutto

Recinto a un colle soitario in cima.

Il fabbricava Euméo con pietre tolte

Da una cava propinqua e...

D'un irta siepe ricingealo, e folto

Di bruna, che spezzò, quercia scorzuta

Pali frequenti vi piantava intorno

Odiss. XIV, v. 7 trad Pindemonte.

Carlo Marchesetti, I nostri proavi


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