La tardiva nascita di un'arte triestina

Maria Masau Dan

 

Di Trieste parlano i libri di archeologia di tutto il mondo per San Giusto; tacciono i libri d’arte, non perché il tacere è bello, ma perché non v’è da parlare. D’arte storica, s’intende.” Con questa breve ma efficace affermazione, Silvio Benco, dall’alto della sua autorità di maggior conoscitore dei fatti d’arte, sintetizza la mancanza di una tradizione artistica a Trieste, giustificata dal fatto che la città aveva iniziato a svilupparsi solo dopo la concessione del porto franco (1719) da parte di Carlo VI, e in seguito ai provvedimenti teresiani della metà del secolo, mentre in precedenza, quando altre città dell’Italia nord-orientale o dell’Austria si arricchivano di palazzi e di opere di pittura e di scultura, era stata sempre ai margini dei grandi eventi, attraversando fasi di decadenza e povertà a causa dell’abbandono da parte dell’Impero.

Lungo il Settecento si posero, invece, le basi per la nascita di una grande città. “Ricchi traffici cominciarono a farvi capo, ed essa ben presto si profilò come antagonista ed erede della decadente Venezia. Ci fu notevole immigrazione di operatori economici di varia provenienza e di popolo dai territori vicini e, nel corso del secolo, la popolazione passò dai cinque ai trentamila abitanti. Si costituì una nuova società caratterizzata dallo spirito d’intraprendenza e dalla mentalità cosmopolita e moderna, significativo esempio di realizzazione dello spirito settecentesco dei ‘lumi’ e della tolleranza, in particolare verso le religioni non cattoliche. Il patriziato sparì, la nuova Trieste nacque come la città più borghese dell’Austria, e si affermò il gruppo capitalistico della Borsa mercantile.”(Apih)

G. B. Bison, Piazza Vecchia a Trieste, 1820
G. B. Bison, Piazza Vecchia a Trieste, 1820

Lo sviluppo di un’attività artistica a Trieste iniziò, sul finire del secolo XVIII, quando giunsero a maturazione alcuni bisogni di questa nuova società: da un lato la necessità di luoghi di culto (San Nicolò dei Greci, 1784) per una popolazione sempre più numerosa e composita, dall’altro il desiderio della borghesia di affermare il proprio potere attraverso lussuose abitazioni (villa Murat, 1785, villa Necker, 1790, Palazzo Carciotti, 1802) e l’imponenza rappresentativa dei luoghi più importanti della vita sociale (Teatro,1801, Borsa,1806). Non si poteva ancora parlare, però, della nascita di un’arte locale: per citare ancora il Benco, “quantunque tra la fine del Settecento e l’Ottocento fossero anni di notevole ingentilimento della città, e molto vi si amasse l’arte, e vi costruissero nello stile neo-classico edifizi di singolar pregio, non sembra che a Trieste stessa si facessero molto valere gli artisti triestini. Forestieri erano i principali architetti: il Pertsch tedesco, il Selva veneto, il Molari da Macerata; lo scultore che alla nuova città arricchita dava il suo popolo di statue era Antonio Bosa, bassanese, discepolo del Canova e professore all’Accademia di Venezia; i pittori più ricercati, Natale Schiavoni e Giuseppe Bernardino Bison, l’uno da Chioggia e l’altro da Palmanova.”

Anche il maggiore ritrattista attivo a Trieste nella prima metà dell’Ottocento, Giuseppe Tominz (1790-1866), ricercato e acclamato come il più fedele interprete dello spirito e delle abitudini di vita della classe borghese affermatasi in città, era nato nella vicina Gorizia e, dopo un trentennio di permanenza a Trieste, nel 1855 vi tornò per trascorrervi la vecchiaia.

La storia dell’arte triestina, intesa come apporto degli autori locali all’abbellimento di edifici pubblici e privati, inizia dunque solo alla metà dell’Ottocento. I primi artisti che possono essere considerati espressione della società locale sono due pittori di storia, Cesare Dell’Acqua (1821-1905), autore di scene grandiose e affollate, spesso riferite alle vicende cittadine, antiche e contemporanee, e Giuseppe Lorenzo Gatteri (1829-1884) interessato, piuttosto, al Rinascimento e alla storia veneziana, di cui illustrò, con un’intonazione leggera e attenta soprattutto agli effetti cromatici, moltissimi episodi. Fu, tuttavia, fortemente legato alla sua città, dove partecipò attivamente alla vita artistica, mentre Dell’Acqua già attorno al 1850 si trasferiva definitivamente a Bruxelles pur accettando ancora a lungo commissioni triestine.

La diffusione del collezionismo nella prima metà dell'Ottocento. Pasquale Revoltella.

 

Nel 1840 sono documentate a Trieste otto "collezioni di quadri moderni" , che appartenevano ad altrettante famiglie della borghesia imprenditoriale, alcune di origine ebraica. Grazie allo scrittore Giuseppe Caprin, se ne conoscono esattamente i contenuti: a parte alcuni nomi già circondati da una notevole fama, come Hayez, Lipparini, D'Azeglio, Schiavoni, Caffi, l'elenco pubblicato contiene in maggioranza autori minori, veneti, tedeschi o austriaci, e opere che non escono dall'ambito della pittura di genere o di paesaggio. Nessuno di quei collezionisti era riuscito a dare una connotazione veramente originale o personale alla propria raccolta. Né le collezioni formatesi negli anni successivi, soprattutto per effetto delle mostre organizzate annualmente dalla Società Triestina di Belle Arti (dal 1840 al 1847) avranno un carattere meno modesto. 

Nella costruzione della sua casa, che fu progettata da un architetto berlinese, Friedrich Hitzig, allievo di Schinkel, Revoltella guardò essenzialmente a due obiettivi: creare un luogo rappresentativo della sua storia e delle sue idee, da un lato, e fornire alla sua città uno strumento educativo utile a tutti i livelli, ricco di spunti per gli aspiranti artisti (che in città non avevano un’Accademia di Belle Arti) e di modelli da imitare per gli artigiani (con pavimenti, rivestimenti, lampadari, mobili e tendaggi di altissima qualità).

Palazzo Revoltella, adorno di gruppi scultorei allegorici (La fontana della Ninfa Aurisina, Il taglio dell’Istmo di Suez) e di quadri storici (La dedizione all’Austria, La concessione del porto franco), fu pensato come museo di belle arti ma anche come museo storico, dove le vicende di Trieste si intrecciano con la storia mondiale, e la storia viene spiegata attraverso l’allegoria, in un processo di idealizzazione degli eventi narrati che mira a nobilitare la figura del padrone di casa e a trasportarla fuori dal tempo.

Pochi gli artisti triestini che parteciparono all’impresa della creazione del palazzo, completato nel 1858: i già citati Dell’Acqua e Gatteri, a cui si aggiunsero i pittori Augusto Tominz (erede meno dotato del ritrattista di cui si è detto), Tito Agujari e Alberto Rieger e lo scultore Giovanni Depaul. Per i grandi gruppi marmorei si scelse il milanese Pietro Magni e per alcuni busti di filosofi il veneziano Luigi Ferrari, due professori di Accademia.

 

I difficili rapporti fra il Museo Revoltella e gli artisti triestini

 

Morto il fondatore nel 1869, l’apertura del museo avvenne nel 1872. La collezione comprendeva allora un centinaio di pezzi, che vennero presto ad aumentare in virtù del lascito di cento mila fiorini finalizzato, secondo le disposizioni testamentarie, all’acquisto di opere d’arte contemporanea.

La gestione di questo fondo competeva ad un Curatorio, coadiuvato da un conservatore (il primo fu Augusto Tominz, rimasto in carica dal 1872 al 1883) che, fin dall’inizio escluse l’arte locale dichiaratamente puntando ad acquisizioni di maggiore prestigio, ma non sempre seppe orientarsi nel mercato dell’arte, che fosse italiano o viennese, e molte volte finì coll’acquistare opere mediocri basandosi solo sulla fama del nome o sulle tendenze di moda. L’unica concessione all’arte triestina fu l’ammissione tra i membri del Curatorio di Giuseppe Lorenzo Gatteri dal 1873 al 1876.

Nel primo decennio di vita del museo gli acquisti importanti furono solo tre: il Busto di Felice Baciocchi di Lorenzo Bartolini, un dipinto di Filippo Palizzi e un dipinto di Francesco Hayez. Occorre arrivare al 1887 perchè entri nella collezione un’opera davvero rappresentativa dell’arte italiana contemporanea: La preghiera di Maometto di Domenico Morelli.

Eugenio Scomparini, Margherita Gauthier, 1890
Eugenio Scomparini, Margherita Gauthier, 1890

Intanto, in città maturavano profondi cambiamenti e stava emergendo una nuova generazione di artisti, quella nata attorno alla metà del secolo, tra cui spiccavano due nomi in particolare: Eugenio Scomparini (1845-1913) e Alfredo Tominz (1854-1936) accomunati dalla circostanza di avere frequentato, dal 1870 in poi, ambienti artistici in fermento come quelli di Roma e Monaco, interrompendo la tradizione che aveva legato i pittori precedenti all’Accademia di Venezia (Dell’Acqua, Gatteri, Agujari) e riportando in città esperienze e linguaggi nuovi, il primo suggestionato dal brillante cromatismo di Fortuny, il secondo dal decorativismo della scuola dei fratelli Adam. Entrambi destinati a svolgere un ruolo di protagonisti in città, seguiranno due strade completamente diverse. Alfredo Tominz, diventando nel 1883 conservatore del Museo Revoltella come erede del padre, dedicherà il massimo impegno a questo lavoro e si accontenterà di essere il “pittore dei cavalli” , oscillante tra i concorsi ippici e le cavalcate storiche (come la Battaglia di Aquileia del 1904, recente acquisto del Museo Revoltella) per un collezionismo raffinato ed esclusivo, mentre Eugenio Scomparini, forte temperamento e capacità di affrontare grandi imprese decorative, sarà la personalità più autorevole dell’arte locale, a partire dal momento in cui, nel 1884 verrà eletto presidente del Circolo Artistico e fino alla morte, avvenuta nel 1913.

E’ Scomparini il primo autore triestino a cui il Curatorio riservi l’onore di un acquisto. Infatti, nel 1890, evidentemente sulla spinta dei tempi mutati, che avevano portato a un ricambio nella gestione del museo e alla convinzione dell’opportunità di accogliere i più significativi artisti locali, venne acquistato il grande dipinto intitolato Margherita Gauthier  soggetto collegato a un riferimento letterario molto popolare ma utilizzato come pretesto per una prova di abilità dell’artista nella resa dei dettagli e, in particolare nel trattare magistralmente, come altre volte, "le grandi coltri di seta azzurra coi fiocchi morbidi" ("L'Indipendente, 14.2.1887).

Ci vorranno ancora degli anni perchè questo mutato atteggiamento divenga una consuetudine e solo nel 1897 saranno acquistate opere di altri triestini (Lonza, Barison) decidendo, pure, di riservare una sala agli artisti della città, ma anche questo è un proposito che non si realizzerà subito.  Anzi, si può dire che fino alla prima guerra mondiale la presenza triestina nel Museo sarà sempre considerata secondaria e “accettata” come un obbligo, mentre dagli anni Venti in poi acquisterà una maggiore importanza.

 

La formazione europea dei nuovi artisti triestini fra Monaco, Parigi, Venezia e Roma.

Il Ritratto del pittore Veruda dipinto dall'amico Isidoro Grunhut nel 1886 è da considerarsi un'opera emblematica del cambiamento in atto verso la metà degli anni Ottanta nell'ambiente artistico triestino. Egli raffigurò l'artista diciottenne alla conclusione del biennio di studi trascorso a Monaco scegliendo di mettere in risalto, nell'espressione corrucciata, il carattere ribelle del più giovane amico, e, nel bianco collare seicentesco che gli illumina il volto affiorante dal buio, la suggestione esercitata su di lui dalla pittura di Velasquez della Alte Pinakothek.

Umberto Veruda (1868-1904) era la bandiera della nuova pittura a Trieste, che veniva esposta regolarmente in una galleria privata, quella di Vendelino Schollian in Ponterosso, e veniva quasi ogni volta attaccata dalla stampa, generalmente per la fattura poco curata e frettolosa rispetto alla buona pittura di stampo accademico. Alla sua prima mostra, nel 1887, venne dedicato questo commento giornalistico: “Essere veristi sta bene, ma non rappresentiamo il brutto vero quando abbiamo a disposizione anche il bello.” (L’Indipendente, 10.11.1887). D’altra parte, erano proprio il rigore e la semplicità di mezzi il carattere distintivo del linguaggio “difficile” di Veruda, che non a caso a Monaco aveva scelto come modello lo stile di Max Liebermann, il pittore “delle grandi ombre”, e solo in rare occasioni avrebbe sacrificato al colore e a necessità descrittive l’essenzialità della sua pittura. Fu inevitabile, per l’artista, cercare altrove motivi di soddisfazione e misurarsi con ambienti meno retrivi. Condusse perciò una vita intensa ed errabonda tra Monaco, Parigi, Roma, Venezia e Vienna, che lo compensò dell’incomprensione della sua città, dove lo confortava almeno la sincera amicizia dello scrittore Italo Svevo.

L’atteggiamento conservatore del pubblico e della critica non fermò tuttavia il processo di rinnovamento dell’arte cittadina, determinato dalle esperienze che i più giovani andavano facendo nelle grandi capitali. Come Veruda, anche Isidoro Grunhut (1862-1896) arrivò a Monaco nella prima metà degli anni Ottanta e trovò nel realismo la forma espressiva più congeniale alla sua personalità. E anche alle sue opere (prevalentemente ritratti) esposte di tanto in tanto nella galleria di Ponterosso non venivano risparmiate annotazioni negative dalla stampa della sua città (se “il bel fare disinvolto, non impastoiato, libero, pronto ad afferrare la plasticità” trovava consensi, la mancanza di brillantezza del colore era considerata un grave difetto, come rilevava “L’Indipendente” del 1.10.1886) benché meno pesanti di quelle riservate a Veruda. 

Ma ancor prima era giunto a Monaco Arturo Rietti (1863-1943), che vi aveva compiuto il biennio di studi già all’inizio degli anni Ottanta, ricavando soprattutto dalla conoscenza diretta di Lenbach quell’impronta inconfondibile di eleganza e leggerezza che, sommandosi al richiamo della scapigliatura lombarda, assicurerà un duraturo successo, non solo a Trieste, alla sua fertile vena ritrattistica.

Più tardi, nel 1890, troviamo a Monaco Guido Grimani (1871-1933), che si era già fatto conoscere giovanissimo per le sue marine e da questo soggiorno ricavò soprattutto una lezione di carattere tecnico, mentre ottenne i risultati migliori nel contatto diretto che ebbe in seguito con l’ambiente lagunare dove risentì soprattutto nella ricerca di effetti di luce, dell’influenza di Pietro Fragiacomo, triestino trapiantato a Venezia, come dimostrano l’acceso lirismo della Marina del 1895 e, ancor di più, le citazioni puntuali (dall’opera La campana della sera, 1893, del Museo Revoltella) di Primi albori, databile al 1908. “Due barche contro luce che incupiscono tutto il primo piano: soli due riflessi bianchi sfuggono come serpenti in fondo al mare; lontano una luce non più di sole veste un paesaggio frastagliato e misterioso. In una barca ferve la vita - è l’ora della cena - ma nell’altra un adolescente vinto dal fascino dell’ora sta appoggiato alla boccaporta in una contemplazione che sa di dolcezza.”(Sibilia)

La presenza di artisti triestini a Monaco, nell’ultimo ventennio del secolo, fu quasi ininterrotta e continuò anche quando, verso la metà degli anni Novanta, la forza di attrazione della capitale bavarese sembrava essere diminuita a favore di Parigi, Venezia e Vienna, dove si  andavano concentrando gli eventi più importanti. Nel 1892 si iscrisse all’Accademia il giovanissimo Glauco Cambon, mentre  verso il 1895 vi si recarono Gino Parin, Bruno Croatto e Oscar Hermann Lamb, e tra il 1899 e il 1901 sappiamo che c’erano Adolfo Levier, Piero Marussig e Argio Orell.  Rispetto agli anni di Veruda e Grunhut, però, la situazione era decisamente cambiata: il realismo era stato ormai soppiantato dall’affermazione dello Jugendstil e, in termini stilistici, la pittura aveva perduto volume e guadagnato colore.

 

Franz von Stuck, Scherzo, 1907 (Museo Revoltella)
Franz von Stuck, Scherzo, 1907 (Museo Revoltella)

Protagonista di questa evoluzione era stato Franz von Stuck, il più celebre dei fondatori della Secessione di Monaco (1892), nel cui studio passarono quasi tutti gli artisti triestini.  Fu facile, dunque, e quasi naturale per la maggior parte di costoro, passare da Monaco a Vienna raccogliendo e rielaborando anche gli stimoli della Secessione viennese. Pur nella loro diversità tutti furono comunque coinvolti in questa fase di cambiamento che vedeva mescolarsi impressionismo e simbolismo, Art Nouveau e divisionismo, e fu proprio nel differente dosaggio dei diversi stimoli ricevuti che ciascuno riuscì alla fine a trovare una propria strada e una propria identità. Il passaggio da Monaco a Vienna è più o meno leggibile nella storia di ciascuno e lascerà un segno indelebile, più marcato, in coloro, Cambon e Orell, ad esempio, che sceglieranno la via del cartellonismo e della decorazione. Ma anche in Piero Marussig, che pure non attraverserà indenne il contatto coi fauves, la Secessione viennese resterà impressa a lungo. E ancor di più in Parin, che forse è quello in cui più di tutti si realizza il compromesso fra le due scuole.

L’attrazione di von Stuck continuò, tuttavia, a esercitarsi a lungo e anche nel primo decennio del Novecento ci fu qualcuno che scelse Monaco per frequentare corsi d’arte: nei primi anni del secolo vi fece una breve comparsa Piero Lucano, dal 1905 al 1911 vi soggiornò Edgardo Sambo e tra il 1910 e il 1913, pur con un’interruzione parigina, Cesare Sofianopulo.  

Monaco rappresentava in un certo senso un avviamento “obbligato” agli studi d’arte, al quale, dal 1887 in poi, ci si preparava frequentando per qualche anno la Gewerbeschule, la nuova Scuola per Capi d’arte in cui insegnava Eugenio Scomparini. Superato il biennio accademico, quasi tutti gli artisti cercavano di proseguire gli studi a Roma o a Parigi, come aveva fatto, del resto, il precursore Veruda, benché il suo continuo viaggiare rappresentasse un caso- limite. L’itinerario non era casuale: molti artisti, dal 1886 in poi, avevano beneficiato del “Premio Roma” assegnato ogni anno dalla Fondazione Rittmeyer a giovani artisti, che per due anni andavano a studiare nella capitale italiana e per il terzo potevano scegliere una capitale straniera.

Solo pochi di  questi pittori sono rappresentati nella collezione del Museo Revoltella con opere che documentano la fase giovanile, benché non tutte siano pervenute nel periodo di esecuzione: se di Veruda e Grunhut, che ebbero il destino di morire prematuramente, amici ed eredi si preoccuparono subito di consegnare l’opera alla storia, degli altri, per la già accennata prudenza del Curatorio nell’ammissione degli artisti locali, si attese il raggiungimento della maturità, salvo pochissimi casi: nel 1908 fu acquistato Primi albori di Grimani, nel 1909 il Velo azzurro di Camion e, appena nel 1915, l’Alba di Lucano. Altre opere arrivarono da donazioni: nel 1910 il Laghetto dei salici di Guido Marussig, presente alla Biennale, fu un dono di Italico Brass. Per lo più la collezione triestina si formò dopo la prima guerra mondiale.

 

Trieste e la Biennale di Venezia. Presenze triestine e acquisti del Museo Revoltella

 

La città stentava dunque a riconoscere il talento dei suoi figli, ma questi si abituarono ben presto a ragionare in termini più ampi e, avvezzi a parlare più lingue e a viaggiare in tutta Europa da studenti, cercarono anche altrove il modo di valorizzarsi. Fino alla prima Biennale di Venezia, evento di grande portata storica, si può dire che l’unico ad essersi fatto conoscere fuori dalla sua città era Umberto Veruna, che all’Esposizione di Roma del 1890 aveva colpito al punto da farsi acquistare un’opera alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, risarcimento anche morale delle umiliazioni subite a Trieste. Anche Rietti aveva avuto già un po’ di successo a Milano e nel 1889 aveva vinto una medaglia all’Esposizione Universale di Parigi. Grimani, da parte sua,  aveva solo sedici anni, nel 1887, quando una sua opera fu scelta per essere esposta a Budapest. La gran parte delle energie degli artisti, però, si consumava in patria, tra poche mostre e poche vendite.

Alla prima Biennale la presenza triestina fu assai deludente. Benché nel prestigioso Comitato di patrocinio ci fosse il triestino (ancorché emigrato da quarant’anni a Bruxelles) Cesare Dell’Acqua, nessuno degli artisti della città potè esporre. Scorrendo il catalogo si trovano solo due nomi con questo luogo di nascita: Pietro Fragiacomo, da tempo residente a Venezia e Giovanni Mayer (il famoso scultore che sarebbe stato ritratto da Veruda nel 1901) a sua volta attivo altrove, per la precisione a Milano.

Fu l’occasione, invece, per accendere i riflettori sul Museo Revoltella, che acquistò la scultura più ammirata dell’esposizione, la Diseredata di Domenico Trentacoste, raggiungendo rapidamente in Italia la fama di istituzione moderna e illuminata. Destinato a durare nel tempo, il sodalizio con la prestigiosa istituzione veneziana non rappresentava però una novità nella politica dei contatti con le esposizioni internazionali: già nel 1892 il Curatorio aveva acquistato all’Esposizione di Monaco (un altro piano di relazioni fra le due città, dunque) quattro opere importanti, tra cui l’Ave Maria di Luigi Nono, autentico capolavoro della pittura veneta di fine Ottocento, e una bella veduta della Giudecca di Guglielmo Ciardi.

Curiosamente nella seconda edizione, del 1897, il Museo non acquistò nulla, ma in compenso, la presenza degli artisti si infittì: esposero infatti i giovanissimi Camion, Croatto e Grimani, accanto ai quali c’era il più maturo Rietti (già ampiamente noto però per i suoi “bellissimi pastelli”) mentre mancavano i veri protagonisti, Scomparini e Veruda. Il primo non esporrà mai, nemmeno da morto, mentre quest’ultimo fu presente nel 1899, nel 1901 e nel 1903, e fu ricordato anche dopo la morte (1904) in alcune retrospettive.

Il primo riconoscimento, se non di una “scuola artistica triestina”, almeno di un’attività significativa in questo settore, fu dato dall’allestimento della “sala della città di Trieste” nella Biennale del 1910. Vi figuravano Cambon, Flumiani, Grimani, Lucano, Guido Marussig, Rietti, Wostry e Mayer. Era la prima “fotografia ufficiale” della situazione, ma non corrispondeva a una scelta di tipoculturale, bensì voleva portare l’attenzione dell’Italia sulla città divisa dalla madrepatria e sulla naturale appartenenza di Trieste alla cultura italiana. La piccola mostra servì anche da strumento di penetrazione degli artisti locali nel museo: le opere di Lucano, Camion, e Marussig, come si è detto, entrarono, in modi e momenti diversi, nella collezione, che, peraltro, nel primo decennio del secolo aveva continuato ad arricchirsi per lo più attingendo alle Biennali, di nomi importanti come Canonica, Balestrieri, Bistolfi, Grosso, De Maria, von Stuck e Zorn.

 

Dal primo dopoguerra agli anni trenta

 

Anche il mondo degli artisti risentì profondamente della spaccatura storica rappresentata dalla prima guerra mondiale e dal passaggio dall’Austria all’Italia. Il dopoguerra trovò una situazione radicalmente mutata sotto tutti gli aspetti, a cominciare dai riferimenti culturali, che ormai erano ufficialmente ed esclusivamente italiani. Se fu abbastanza facile l’adattamento della generazione nata alla fine dell’Ottocento, per coloro che erano nati prima e si erano formati in una dimensione europea e in un clima del tutto diverso, fu un impatto drammatico, fino al caso limite, sfociato nella follia, di Vito Timmel, forse il personaggio più fantasioso ma anche il più incapace di affrancarsi dall’impronta viennese e secessionista.

Alcuni sopravvissero come testimonianze del proprio passato, non riuscendo a entrare nella dimensione del presente, come Flumiani, Grimani, Tominz, Rietti, e continuarono a beneficiare della persistenza, nel mercato triestino, di nostalgie e di gusti tradizionali, altri emigrarono verso città più grandi e verso più ampi sbocchi commerciali (Cambon, Croatto) o culturali (Guido Marussig) o addirittura tornarono sui propri passi (come Hermann Lamb nella sua Vienna) mentre a Trieste l’eredità “politica” di Scomparini veniva raccolta da Edgardo Sambo, l’unico, assieme a Piero Marussig, e, in un certo senso a Cesare Sofianopulo, a essere stato capace di riconvertire il suo talento e a seguire il corso della storia. Non a caso, nel 1929, egli sarebbe diventato il successore di Alfredo Tominz nella direzione del Museo Revoltella e avrebbe dato uno straordinario sviluppo alla galleria d’arte moderna, con uguale attenzione per i nomi celebri (Castrati, Carrà, De Chirico, Sironi, ecc.) e per i pittori concittadini.

Del resto fu un momento magico per l’arte triestina: le tendenze più importanti del Novecento trovarono qui alcuni magistrali interpreti come Giannino Marchig, andatosene però, prestissimo, a Firenze), Carlo Sbisà, Dyalma Stultus e Leonor Fini, a sua volta presenza importante ma fugace. Per non parlare dei casi straordinari di Vittorio Bolaffio e Arturo Nathan, le vette forse più alte della sensibilità e della cultura triestina degli anni Venti, che seppero, in modi opposti e impossibili da confrontare, uno attraverso la più cruda rappresentazione della vita, l’altro nella fuga dalla realtà verso altri mondi, tradurre in immagini quello che i grandi scrittori della stessa epoca erano riusciti a esprimere con le parole circa l’anima di Trieste.

 

dal catalogo

Pittura triestina tra '800 e '900, catalogo della mostra a cura di M. Masau Dan, Budapest, Szepmuveszeti Muzeum, maggio-giugno 1999


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