Sabina Pugliese, storica e collezionista di foto d'epoca

Nel mondo, piuttosto vasto, ma anche omogeneo, degli appassionati di fotografia storica triestina, emerge una figura decisamente inedita, quella di Sabina Pugliese, giovane mamma, laureata in storia, di professione sviluppatrice di software e collezionista di foto antiche. 

Esce in questi giorni per l'editore Luglio il suo primo lavoro Fotografi a Trieste. Elenco dei fotografi attivi in città tra il 1839 e il 1918, che verrà presentato oggi, sabato 21 ottobre alle 17.30 da Claudia Morgan, storica della fotografia e già responsabile della Fototeca dei Civici Musei di Trieste. 

 

Per conoscerla meglio pubblichiamo due sue considerazioni sulla vita del collezionista:

 

Prima parte

Gennaio 2001.

In quei primi giorni dell’anno soffiava bora scura. Gli infissi di ferro che mio nonno aveva dipinto di grigio facevano passare gli spifferi. Le carte ingiallite si muovevano da sole sullo scrittoio, come se una mano tremante le leggesse per l’ultima volta. In mezzo a quei documenti vecchi di cent’anni qualche foto: alcune risalivano a vent’anni prima, altre a più di un secolo. Le guardai, cercando di cogliere nella fisionomia delle persone ritratte qualcosa di familiare. Mia nonna. Mia zia. Sul fondo della scatola di legno, due foto piccole, attaccate ad un cartoncino. Allora non lo sapevo, ma quelle che tenevo in mano erano due carte de visite del mio bisnonno, fatte fare prima di partire per il servizio di leva che all’epoca durava cinque anni.

Dopo il funerale di Valeria quella scatola di legno venne riposta in cantina, dove rimase per molti anni. Fino a quando un giorno, già adulta, la ritrovai per caso. Riscoprii così quelle foto; e guardando quei volti mi trovai a voler saperne di più: chi erano state veramente quelle persone, cosa avevano fatto, come avevano vissuto. Cominciai a chiedere informazioni all’anziana superstite della mia famiglia, cercai date nei vecchi registri parrocchiali, riscostruii parte del mio albero genealogico.

Mentre scorrevo quei registri restavo sempre più affascinata dalle vite che incrociavo: non solo dei miei familiari, ma anche di compaesani, bambini, sconosciuti dai nomi esotici. Scoprivo per caso drammi e tragedie che avevano colpito famiglie estranee due secoli prima.

Un giorno per caso passai davanti ad una rigatteria e d’impulso entrai. Rimasi sorpresa dall’enorme quantità di scatole polverose in cui erano accatastate le più disparate fotografie: uomini, donne, paesaggi montani, palazzi gotici, monumenti sconosciuti. Ne sfogliai un paio e mi imbattei nella fotografia di una donna appoggiata ad un vecchio apparecchio fotografico, la gonna lunga e la camicetta bianca, i capelli lunghissimi raccolti in un’acconciatura elaborata. Tutto, in quella foto, mi fece capire che tra me e quella donna c’era una barriera insormontabile, fatta di cento anni di storia. Quella donna non sapeva che il suo mondo sarebbe crollato di lì a pochi mesi in quel grande massacro che fu la prima guerra mondiale, che cambiò definitivamente il volto dell’Europa plasmando a suo capriccio i destini di tutti i popoli che vi rimasero coinvolti. A Trieste più che altrove. Perché qui, nel fervente porto adriatico in cui tutti potevano fare fortuna, sempre avevano convissuto popoli diversi per lingua, tradizioni, convinzioni religiose.

E tutto ciò che rimane di quei destini lontani, sono oggi queste fotografie. Per me, sfogliarle significa far rivivere le persone ritratte anche se solo per pochi istanti. E’ dare voce al dolore di una madre che si fa ritrarre con la figlia che non vedrà più. Significa comprendere la rassegnazione di una moglie che vuole mandare al marito al fronte una foto dei figli. Ma è soprattutto mostrare ai nostri contemporanei la bellezza di cui è capace la fotografia.

 

Seconda parte

Faceva caldo quel giorno. Mentre si preparava per uscire, Sofia pensò con affetto a Netty. Non si vedevano da molto tempo, ed era convinta che la sua cara amica avrebbe apprezzato la foto che si accingeva ad inviarle: cappellino e ombrellino da sole erano intonati in una fantasia scozzese, e con quell’abito, riccamente ornato di pizzi, sembrava più adulta. Sofia spedì la busta con la fotografia, e ritornò alla sua vita. Era il 19 agosto del 1883.

 

Paolo ha sette anni. È fermo, in posa. Gli hanno detto che deve rimanere immobile, e lui ci sta provando in ogni modo, anche se un po’ gli viene da ridere. È un bambino di sette anni, ma sa già che è un bambino fortunato: nel 1912 se hai fortuna lo sai subito, perché quelli sfortunati non hanno le scarpe, e quando vanno dal fotografo devono farsi dare un vestito e pure le scarpe. Paolo, invece, è fortunato, perché la sua è una famiglia di armatori, hanno lasciato la loro isola fatta di pietre bianche e circondata dal mare blu, e sono venuti a Trieste, il grande porto dell’Impero. E le loro navi solcano i mari del mondo.

Paolo tutto questo già lo sa, ma è pur sempre un bambino di sette anni, e quella foto da mandare ai parenti per lui è come un gioco: si vede dal sorriso che i suoi occhi intelligenti non riescono a nascondere.

 

Cosa pensa una madre in posa con la figlia morente tra le braccia? Quanto amore la divorava in quel momento? L’unico ricordo di questa bimba è una foto consumata tra le mani amorevoli di una madre distrutta. Sul retro, delle note: nata nel 1903, morta nel 1906.

 

Margherita ama Trieste. E ama la sua famiglia, e tutto l’affetto che prova in questo momento le riempie gli occhi di lacrime, all’idea di non vederli più. Ma Margherita è anche madre, e come tutte le madri vuole il bene di sua figlia Maria. Il bene più grande. E allora Margherita parte. Abbandona la sorella, i fratelli, madre e padre, e nel 1880 va a New York, perché l’America è la terra della libertà e delle opportunità. Con la sola speranza di dare a Maria una vita migliore. Perché anche nella sua bella Trieste, i poveri sono sempre poveri, e le opportunità per una figlia povera non ci sono.

 

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Quando trovo delle note sul retro di una fotografia, cerco di risalire all’identità della persona ritratta. Raramente ho fortuna. Ma qualche volta trovo degli indizi, tracce che mi permettono di fare qualche passo, non sempre nella direzione giusta. Fare il collezionista, per me, equivale a passare il tempo con un difficile rompicapo: perché le informazioni ci sono, basta saperle trovare. E per trovarle, bisogna calare i panni di un investigatore. In una foto d’epoca, ogni particolare “parla”. Gli abiti e gli accessori ci indicano il ceto sociale, il tipo di cartoncino e l’indirizzo segnano in modo abbastanza preciso l’epoca, il nome del fotografo e il luogo dello studio identificano una zona cittadina. Qualche nota a penna, e se sono fortunata trovo nome, cognome e data di nascita della persona ritratta. È una cosa che dà soddisfazione, come completare un rebus particolarmente complesso. Eppure, è una felicità velata dall’amarezza. È come guardare un film di cui si sa già la fine – e non sempre è un lieto fine. Sofia morirà ad Auschwitz. Paolo emigrerà negli Stati Uniti. La madre perderà anche un figlio pochi mesi dopo aver perso la bambina. Di Margherita e Maria non so niente, ho perduto le tracce. Suppongo siano transitate a Castle Garden[1], immagino che poi si siano sistemate in qualche camera ammobiliata, forse Margherita ha trovato lavoro come cucitrice. Quello che so è che pochi anni dopo Jacob Riis, fotografo danese trapiantato a New York, diverrà famoso per le sue foto che mostrano la vita negli Slum e che denunciano il lavoro minorile.[2]

 

[1] Il Castle Garden Immigration Depot di Manhattan fu in funzione dal 1820 al 1892, per essere poi sostituito con il centro immigrazione di Ellis Island.

[2] Due furono i libri fotografici di Jacob Riis che fecero scalpore: “How the other half lives” e “Sons of the poor”. All’epoca le foto contenute in questi volumi risvegliarono le coscienze della borghesia americana e diedero una forte spinta al movimento per la tutela dell’infanzia.


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